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A Caltanissetta il Nuovo Comitato Agricoltori Allevatori Sicilia, la lotta che nasce dal basso
di Angela Sciortino

comitato

(di Angela Sciortino) Esasperati ma determinati, con esperienze diverse e tante idee, ma con un solo obiettivo: affermare la centralità dei produttori nella filiera agroalimentare, ritrovando reddito e dignità. Abbandonati dalla politica e insoddisfatti di come vengono rappresentate le loro istanze dalle organizzazioni di categoria, si sono organizzati in comitato. Il primo appuntamento, organizzato con un rapido tam-tam sulla chat di un gruppo whatsapp, è stato consumato lo scorso 22 agosto in una struttura agrituristica dell’entroterra siciliano dove ha preso vita e forma il Nuovo Comitato Agricoltori Allevatori Sicilia. Immediatamente dopo hanno aperto una pagina Facebook dove raccogliere like e adesioni. 

Ma cosa accomuna i tanti agricoltori, prevalentemente produttori di cereali e allevatori, che giunti un po’ da tutte le province dell’Isola, si sono dati appuntamento lo scorso 22 agosto? La consapevolezza che il prezzo del grano duro non riesce a coprire le spese di produzione. Così come accade per altre produzioni agricole come il latte e l’ortofrutta. E fin qui storia vecchia. Quando mai il prezzo delle derrate agricole negli ultimi decenni ha raggiunto livelli tali da soddisfare le legittime aspettative di profitto dei produttori? Ecco perché è stata messa punto la Pac, tanto discussa tanto avversata ma finora tanto necessaria a tenere in piedi i bilanci traballanti delle aziende agricole che senza premi a superficie o a produzione non ce la fanno più a tirare avanti. E che presto, più per rendere giustizia di alcune storture che spesso hanno interessato gli agricoltori del Nord Europa, sarà modificata anche per tenere conto della ridotta disponibilità conseguente all’uscita del Regno Unito dalla Ue.

Ma per tornare al grano duro tutti i rimedi fin qui messi in campo sono serviti a poco o a niente. Quando non, addirittura, hanno contributo a peggiorare la situazione. Analizziamoli uno per uno. E cominciamo dall’obbligo dell’indicazione dell’origine in etichetta. Il decreto secondo alcuni nasconde una trappola e cioè che basterebbe potere dimostrare di utilizzare almeno la metà di grano duro nazionale per potere scrivere in etichetta “grano prodotto e molito in Italia”. Di questo è convinto Mario Di Lena, cerealicoltore di Mussomeli. Ma una lettura molto attenta dell’articolo 3 dovrebbe sgombrare il campo da questa preoccupazione.

Rileggiamolo l’articolo 3: “1. Qualora le operazioni di cui all’art. 2 (coltivazione e molitura ndr) avvengono nei territori di più Paesi membri dell’Unione europea o situati al di fuori dell’Unione europea, per indicare il luogo in cui la singola operazione è stata effettuata, anche in assenza di miscele, possono essere utilizzate le seguenti diciture: «UE», «non UE», «UE e non UE». 2. In deroga a quanto previsto dal comma 1, qualora il grano utilizzato è stato coltivato per almeno il cinquanta per cento in un singolo Paese, per l’operazione di cui all’art. 2, comma 1, lettera a) può essere utilizzata la dicitura: «nome del Paese» nel quale è stato coltivato almeno il cinquanta per cento del grano duro «e altri Paesi»: ‘UE’, ‘non UE’, ‘UE e non UE’» a seconda dell’origine”.

Appare piuttosto chiaro che il riferimento è a una fattispecie particolare già vista su alcune etichette dove sta scritto ad esempio: grano duro prodotto in Italia e paesi Ue, molito in Italia. Si indica così che la maggior parte del grano utilizzato per fare la pasta è prodotto in Italia e la restante parte in paesi dell’Unione. Oppure “grano duro prodotto in Messico e paesi non Ue” e anche in questo caso il significato è lampante: più della metà del grano duro per fare la pasta è stato coltivato in Messico, il resto giunge da uno o più paesi fuori dall’Unione Europea.

C’è un altra domanda che circola tra i componenti del Nuovo Comitato Agricoltori Allevatori Sicilia e che non trova risposta: perché da quando è in vigore l’obbligo dell’origine in etichetta il prezzo del grano duro in Sicilia e in Italia, invece di salire, è sceso, stabilizzandosi intorno ai 18-20 euro al quintale? Per uscire alla pari e guadagnarci qualcosa dovrebbero venderlo almeno a 30 euro al quintale. E su questo obiettivo è centrata la battaglia del Comitato: far sì che al prodotto si riconosca il giusto prezzo. Semplice a dirsi molto più difficile a farsi. Soprattutto in Sicilia dove il commercio del grano duro è in mano a 5-6 grossisti, gli unici in grado di stoccare il prodotto e che in un regime di oligopolio governano il mercato. Gli stessi che non si sono fatti scrupolo, pur rappresentando interessi molto diversi da quelli degli agricoltori, di far parte delle commissioni presso le Camere di Commercio nate proprio con l’obiettivo di limitare le speculazioni e che monitorano prezzi e scambi. L’ulteriore confusione e commistione si manifesta quando in un unico rappresentante confluiscono due figure: il produttore e il commerciante-stoccatore. Difficile dare torto agli agricoltori che hanno deciso di non depositare alla Camera di Commercio le fatture da cui si traggono i dati per determinare i prezzi medi di mercato della settimana: «Non vogliamo essere complici del nostro stesso sfruttamento», afferma Agostino Cascio che ama definirsi “l’ultimo contadino di Sicilia”.

Un altro dei rimedi messi in campo dall’allora ministro Martina è il fondo grano duro: dieci milioni di euro per gli agricoltori che decidevano di sottoscrivere un contratto di filiera con le industrie di trasformazione. Nelle intenzioni del ministero lo strumento avrebbe dovuto rafforzare una filiera disgregata dove i produttori italiani contavano poco. All’analisi sicuramente corretta, non è seguito però uno strumento adeguato e così i contratti di filiera non hanno risolto il problema. Osserva Mario Di Lena: «Prima che venisse introdotto l’obbligo della indicazione in etichetta della provenienza del grano, erano poche le aziende agroalimentari interessate alla sottoscrizione di contratti di filiera. Oltre ad alcuni piccoli pastifici operanti in mercati di nicchia, tra le grandi aziende c’era solo il gruppo Barilla proprietaria del pastificio Voiello. Appena è diventato obbligatorio indicare l’origine del grano duro anche altri pastifici – che prima erano importatori dichiarati – si sono inseriti nella filiera italiana del grano ma hanno imposto contratti di filiera con clausole facilmente contestabili (da loro ndr) cosicché ai ceralicoltori difficilmente vengono riconosciute premialità e prezzo pattuito che fa comunque riferimento alle borse merci con le distorsioni che queste si trascinano dietro». Per molti del Comitato sarebbe meglio che nella determinazione del prezzo del grano venisse preso in considerazione oltre che il contenuto proteico (parametro che sta molto a cuore ai pastai) e altre caratteristiche meccaniche fisico-chimiche, anche la sua salubrità e quindi il contenuto di residui dannosi.

Pare dunque che i contratti a cui sono obbligati i cerealicoltori che vogliono ottenere il “premio di filiera” che, per inciso, introdotto nel 2016 non è stato ancora pagato, siano congeniali solo agli industriali. In questo modo, infatti, riescono a costruirsi un ottimo alibi per acquistare grano straniero. Potranno sempre dire che i loro fornitori non sono stati in grado di consegnare la merce pattuita e pertanto hanno dovuto rivolgersi al libero mercato dove circola parecchio grano duro di dubbia qualità, almeno dal punto di vista dei residui chimici e di micotossine.

Ma non solo. La sottoscrizione di contratti di filiera per migliaia e migliaia di ettari con gli agricoltori del Bel paese, mette i grandi pastifici anche nella condizione di potere indicare in etichetta che il grano duro con cui è fatta la pasta è cento per cento italiano. Salvo poi effettuare la verifica documentale. È ovvio che, quando mai faranno i controlli, se a fronte di numerosi contratti poi mancano le fatture di acquisto, si dovrebbe configurare il reato di truffa e frode in commercio.

Intorno ai contratti, poi, circolano molti quesiti. Giuseppe Tatano, cerealicolture di Villalba, rivolgendosi ai colleghi cerealicoltori, pone alcune domande retoriche: «Perché i contratti si basano su coltivazioni monovarietali? Perché limitare anche alla semina la possibilità di scelta e di decisione degli agricoltori? Se i campi appartengono agli agricoltori perché mai le decisioni le deve imporre l’industriale? Perché non posso decidere di tenere per me 10 quintali di prodotto?». Interrogativi a cui l’agricoltore sa certamente dare risposte convinto com’è che «la battaglia da condurre è contro le multinazionali, I’ltalmopa, i pastai del calibro di Barilla, la Casillo group che si arricchiscono a scapito delle nostre economie familiari, aziendali e della nostra stessa salute». Ma le domande servono a far riflettere e a insinuare il dubbio che le ditte sementiere, o alcune di esse, possano essere in sintonia con gli industriali della pasta grazie ad accordi triangolari: associazione di agricoltori che controlla società sementiera e che sottoscrive contratto quadro di filiera con la grande industria.

Nel frattempo nei porti siciliani continua lo sbarco di grano duro estero ma non si hanno notizie di controlli. Dopo le 3,5 tonnellate sbarcate a Pozzallo qualche giorno fa, si vocifera di una nave in arrivo al porto di Catania. Gli agricoltori del Comitato sono in allarme, ma anche consapevoli di condurre una guerra difficile. Commenta a tal proposito Di Lena: «Non credo che verranno effettuati controlli, dopo che per il blocco del grano kazako a Pozzallo (quello dello scorso marzo ndr) la compagnia armatrice ha chiesto per il fermo nave 25mila euro al giorno».

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